Il superamento dei campi rom, non gli sgomberi
Si ha un gran vociare in questi giorni di sgomberi imminenti di campi rom a Roma.
Giovedì è stato sgomberato il campo La Barbuta, nel quale vivevano quindici nuclei familiari. Quale sarà il prossimo? Salviati? Lombroso?
Sì, perché durante le campagne elettorali a Roma, le persone che vivono nei campi tremano sempre un po’ di più.
Ad oggi, per esempio, le informazioni circa la chiusura dei campi rom vengono utilizzate come specchietto per le allodole della campagna elettorale di Virginia Raggi.
Quello che all’amministrazione Raggi manca di specificare, però, è l’indegno approccio nei confronti delle vite umane che abitano le baraccopoli, per cui dopo la chiusura dei campi non c’è nulla, se non la segregazione in campi controllati militarmente. Quasi fosse un crimine, la povertà!
Io penso che quella delle baraccopoli è una condizione di marginalità estrema, che deve essere trattata come una questione sociale e non una questione di pubblica sicurezza.
Il lavoro dell’ Associazione 21 luglio in questo ambito è essenziale, oltre che prezioso. Questa estate, i molti anni di studi, lavori nei campi e advocacy, hanno portato alla pubblicazione del loro rapporto ‘Agenda Roma 2021’. Si tratta di un studio approfondito sul superamento dei campi, contenente proposte ben precise che implicano un approccio trasversale che renda conto delle politiche di welfare, inclusione e politiche della casa come diritto.
Ecco, io mi impegno a sostenere le proposte dell’Associazione 21 luglio, e continuerò a lavorare affinché le baraccopoli vengano superate in percorsi che tengano conto dei diritti umani di tutti.
Nei mesi scorsi ho favorito una proficua interlocuzione tra Roberto Gualtieri e Carlo Stasolla, presidente dell’associazione, e per la prima volta la questione rom è stata integrata nel programma di un candidato sindaco all’interno delle politiche per la casa in questo modo: “Campi rom, supereremo l’approccio etnico e meramente securitario al tema, ripristinando la legalità attraverso la gestione della transizione degli aventi diritto verso alloggi regolari.” Questa è la promessa di Roberto Gualtieri, che mi impegno a mantenere con lui, affinché gli esseri umani vengano trattati in quanto tali, con la dignità che meritano, e non come pedine di sciocche manipolazioni elettorali o problemi di pubblica sicurezza.
Pio e la vita dentro e fuori un campo rom
La carta d’identità di Pio si tiene insieme per miracolo, a causa di un avventato passaggio in lavatrice. Fragile, sbiadita, con i bordi smozzicati; mentre lui la sfila dal portafoglio, sembra sul punto di disintegrarsi. Una precarietà quasi iconica, che racconta la vita del suo proprietario più di quanto non facciano le informazioni stampate sopra, spesso fuorvianti. Ad esempio, il nome e il cognome non dicono tutta la verità. Sulla carta, infatti, c’è scritto Nedzav Husovic. “Ma tutti mi hanno sempre chiamato Pio, tranne un mio caro amico e le ragazze con cui sono stato”. Il nuovo nome glielo ha affibbiato suo fratello maggiore, quando erano bambini. “Vivevamo in un campo rom a Quarto Miglio”, racconta, “e io correvo sempre dietro alle galline di nonna, gridando ‘pio pio’”. Poche righe più sotto, un altro inciampo. Alla voce ‘cittadinanza’ c’è scritto ‘bosniaca’. “È falso, io sono nato e cresciuto a Roma ma non ho cittadinanza, sono apolide come mia madre, solo papà è bosniaco, perché è nato in Bosnia ed è arrivato in Italia a sei mesi”. Il terzo intoppo è sul retro della carta, dove campeggia la scritta ‘non valida per l’espatrio’. Senza cittadinanza, infatti, non si possono attraversare le frontiere. “Io non sono mai uscito dal mio paese, non ho passaporto e il viaggio più lungo che ho fatto è stato in Sicilia, con l’aereo”. Per non parlare dei problemi che l’apolidia può creare nei rapporti con la pubblica amministrazione, oppure a scuola e sul lavoro. “Io mi sono fermato alla terza media anche per colpa della mancanza dei documenti; il primo permesso di soggiorno l’ho avuto a 20 anni”. Un permesso di soggiorno come ‘caso speciale’, dicitura che un po’ fa ridere e molto fa riflettere. “Mi sono ritrovato in fila all’ufficio immigrazione accanto a disperati fuggiti dalla guerra”.
Formalmente, quindi, Pio non ha radici, è impalpabile come un fantasma. Nella sostanza, invece, è un ragazzo solido e socievole, che rivendica con orgoglio la sua appartenenza, “Io so de Roma, anzi so de Centocelle”, sottolinea, calcando volutamente il naturale accento romano. Fino al 2010, infatti, viveva all’interno del Casilino 900, allora l’insediamento rom più grande d’Europa. Una mattina, senza alcun preavviso, lui e la sua famiglia sono stati svegliati dalle ruspe venute a sgomberare il campo, per volontà della giunta Alemanno. “Fu una tragedia! Io abitavo lì da 15 anni, avevo amici nel quartiere, avevo una comitiva, non c’erano distinzioni tra rom e non rom”. Tutto spazzato via da un trasferimento repentino e forzato. Nell’alternativa tra il campo di via di Salone e Camping River, i genitori di Pio scelsero la prima soluzione, che almeno gli permetteva di ricongiungersi con alcuni parenti. Una consolazione davvero troppo magra. “Da un giorno all’altro mi sono ritrovato a vivere in un posto isolato, recintato, fuori dal raccordo, dove non c’era possibilità di interazione; sono cose che creano i mostri, sia nella testa che fuori; ti ritrovi a chiederti: e adesso che faccio?”.
La risposta è arrivata anni dopo: esco, cambio vita. Nel 2017, Pio ha salutato la sua famiglia e il campo di Salone per trasferirsi nel quartiere Don Bosco. “Ho preso in affitto una stanza in un seminterrato”, racconta, “era brutta ma ci si poteva stare”. A consentirgli di fare il grande passo è stato l’aver raggiunto una minima sicurezza economica, grazie al lavoro con l’Associazione 21 luglio. Un rapporto iniziato a seguito dell’interessamento di Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione, che lo contattò per proporgli un corso come attivista rom. “Accettai perché in quel periodo avevo tanta roba nella pancia da tirare fuori: volevo dire a tutti che noi siamo persone prima di essere rom e che la cultura e il nomadismo sono solo scuse per segregarci”. Dopo il corso è arrivato uno stage retribuito sui diritti umani e poi l’incarico come mediatore culturale nei progetti educativi. Infine, l’approdo presso il Polo ex Fienile di #TorBellaMonaca, dove Pio ha ritrovato dinamiche di ghettizzazione che conosce bene, tanto da definire il quartiere “un campo rom in verticale”. E forse è proprio questa identificazione la molla che lo spinge con più forza verso gli altri. Ora che è ‘fuori”, comprende ancora meglio cosa significa essere ‘dentro’, e non ha nessuna intenzione di tornarci. Ed è consapevole che quell’uscita non è un percorso che riescono a fare tutti, “devi avere la determinazione ma anche gli strumenti”. A via di Salone ci capita di rado ed ogni volta viene accolto da sentimenti contrastanti: c’è chi è curioso di sapere come va la sua nuova vita e chi lo sfotte dicendogli che oramai è diventato un ‘gaggio’ (da gagè, cioè non-romanì, ndr). Sono atteggiamenti che non lo infastidiscono né lo feriscono. Ciò che gli fa davvero male, invece, è constatare lucidamente i danni creati da decenni di strategia dei campi nomadi. “Se chiedo a mio nipote cos’è la cultura rom, lui risponde che è il campo, lo stare tutti insieme, perché siamo stati schiacciati, completamente assorbiti e privati di qualsiasi caratteristica personale; è questo che succede nei campi rom, quando cominci a pensare che non vali niente, che sei solo un numero; è un lavaggio del cervello che fa lo Stato con la scusa che a noi piace vivere così”.
[Il racconto di Pio fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto Pio al Polo Ex-Fienile, durante il lockdown, in occasione del confezionamento dei pacchi bebè distribuiti dalla 21 luglio. Insieme a lui, sono stato al campo di via di Salone e ci siamo continuati a vedere e a sentire perché, oltre a essere un ragazzo molto simpatico, è un interlocutore interessante e stimolante]
Read MoreManifesto per una capitale ecologica e solidale
Roma è una città piena di energie e di realtà che, se messe in condizione di lavorare al meglio, potrebbero cambiarne il volto dopo anni di declino. Sono associazioni, persone, piccole aziende che fanno della solidarietà e dell’ecologia la loro missione. Ieri ne ho incontrate alcune, che rappresentano il mondo dell’ambientalismo, dell’agricoltura, del commercio locale, della solidarietà sociale e dell’economia alternativa. E’ stato un momento di ascolto importante, che rafforza la mia volontà di continuare l’impegno che ho assunto nella scorsa legislatura per dare voce e risposte alla parte migliore di questa città.
Incontrare Terra, Zolle, il Mercato Trieste, Refoodgees, la Cantina Ress e la Cooperativa Agricola Coraggio mi ha fatto pensare di nuovo a quanto sono importanti e sottovalutati i temi dell’agricoltura e delle politiche pubbliche del cibo nella nostra capitale, e a quanto è urgente ricostruire il legame virtuoso con i mercati rionali, le mense scolastiche, i luoghi delle disuguaglianze, le persone che non hanno accesso a un cibo di qualità. E’ grazie a realtà come loro che anche io sono riuscito a cogliere nel profondo l’urgenza di lavorare a una politica del cibo che tenga insieme tutti questi aspetti, invece di pensarli come satelliti lontani.
Abbiamo ancora molto da fare, perché a questa città è mancato tutto: dalle azioni più concrete e immediate alla visione complessiva di lungo periodo. Eppure abbiamo importanti esempi a livello europeo e internazionale, a cominciare da Barcellona, che con il suo lavoro sulle economie trasformative sta dando ascolto e spazio alle realtà più virtuose e capaci di offrire idee e progetti per migliorare la vita dei cittadini, ridurre le diseguaglianze e scoraggiare le speculazioni.
Ha ragione quindi Roberto Gualtieri quando dice che è al modello Barcellona che dobbiamo guardare, perchè oggi serve liberare queste energie positive, che possono avere un effetto dirompente sulla nostra vita quotidiana, rafforzare circuiti economici virtuosi e garantire diritti a chi oggi vive in condizioni di marginalità.
Le rivendicazioni e le proposte che ho sentito ieri sono un manifesto politico per una città diversa, attiva, ecologica e solidale. Continuerò a lavorare per vederle finalmente realizzate.
Maxiprocesso ai Casamonica: è associazione mafiosa
“Associazione mafiosa”. È questo il verdetto emesso oggi dai giudici del processo contro il Clan dei Casamonica. La sentenza, letta nell’aula bunker di Rebibbia, è rivolta a 44 imputati, tra i quali spiccano i nomi dei vertici della famiglia mafiosa. Un iter giudiziario lungo 18 mesi ed estremamente complesso, tra vittime reticenti per paura, pentiti che hanno subito minacce e la difficoltà, per gli inquirenti, di farsi strada in un reticolato di relazioni criminali che si è allargato fino a lambire volti noti e posizioni di potere. Per giungere a meta, ci sono volute costanza, tenacia e determinazione, sia da parte delle forze dell’ordine e della magistratura che delle poche ma decisive persone che hanno scelto di parlare e scoperchiare una cupola violenta e oppressiva. Associazione mafiosa. Finalmente una definizione giuridica restituisce dignità alle centinaia di donne e uomini che, ogni giorno, a Roma, sono vittime delle mafie. Quello dei Casamonica è un potere criminale che ha potuto agire praticamente indisturbato per decenni, favorito da un clima generale di incomprensione e sottovalutazione. Quelli che erano dei veri e propri boss mafiosi, infatti, venivano considerati alla stregua della piccola criminalità di strada, violenti ma senza strategia, quindi poco interessanti da un punto di vista investigativo. Purtroppo, anche grazie a questo atteggiamento, i Casamonica hanno potuto costruire il loro impero. Quella di oggi, quindi, è una sentenza fondamentale, da accogliere con soddisfazione, sottolineandone l’importanza politica, per le sue ricadute sulla vita della collettività. Perché chiamare le cose con il loro nome significa già dare loro una forma concreta, che può essere combattuta. Perché realtà come quella dei Casamonica si nutrono della nebbia, delle mezze verità, dell’omertà.
Read More5 piani senza ascensore
Nelle case popolari site in via Palmiro Togliatti 108, quartiere Lamaro, – conosciute ai più per aver ospitato l’infanzia di Eros Ramazzotti – si respira aria di comunità: le persone sorridono e si salutano scambiandosi battute veraci, sotto agli edifici vi è un parchetto ben tenuto, con delle panchine colorate e gli alberi potati. Le buche vengono prontamente ricementate e spesso si fanno delle grandi feste. Peccato che a rendere possibile tutto questo non sono le istituzioni, ma alcuni abitanti che si sono fatti carico della manutenzione ordinaria e straordinaria, in uno dei tanti condomini dimenticati dalla pubblica amministrazione nei quartieri popolari di Roma. Gli edifici del comprensorio, nati senza ascensore, così sono restati negli anni. Le persone anziane che abitano ai piani superiori sono letteralmente intrappolate in casa: ‘ogni tanto mia nonna dava cinque euro ai fruttivendoli e si faceva portare la spesa su casa; è morta aspettando che facessero l’ascensore’, ci dice Melissa. Sì, perché l’ascensore l’hanno promesso, hanno fatto i sopralluoghi e chiesto di presentare un progetto. Il progetto i cittadini se lo sono fatto da soli, ma degli ascensori ancora nessuna notizia. Per la signora Pina, invece, la voglia di far sentire la propria voce è più forte della fatica dei cinque piani che la separano da casa sua:‘ Io ho sempre votato a sinistra, ma qui siamo quasi sempre stati abbandonati da tutti’. Melissa Marzoni ci porta poi nel comprensorio accanto, dove c’è la sua casa e dove le infiltrazioni di umidità stanno creando un vuoto sotto agli edifici e i lampioni sono rotti da sempre, a causa di manutenzioni inefficienti. Già sul luogo, io, Valeria Baglio e Francesco Laddaga , abbiamo aperto un giro di telefonate per capire come intervenire in maniera tempestiva e pratica sulle case popolari del Lamaro. Grazie a Melissa Marzoni che ci ha reso possibile conoscere questa realtà e grazie alle case popolari del Lamaro che ci ha comunicato ospitalità, chiarezza d’intenti e voglia di comunità.
Read MoreSonny, il ragazzo leone e i diritti delle seconde generazioni
Se deve scegliere un’etichetta da appiccicarsi addosso, Sonny Olumati preferisce quella di creativo. “Artista no, non ho quella pretesa”. La sua forma di espressione prediletta è la danza, che pratica e insegna ormai da molti anni, prima nella sua Ostia, dove è cresciuto, poi in contesti sempre più importanti, come l’Accademia di Danza di Roma o il Centro Sperimentale di Cinematografia. Da qualche anno, però, ha scelto di cimentarsi anche nella scrittura, dando alle stampe il suo primo libro, intitolato “Il ragazzo leone”. Dentro ci ha messo molto di sé, del proprio vissuto e della propria visione del mondo. Primo, il protagonista della storia, è un bambino italiano dalla pelle nera, proprio come lui. Il suo fedele pupazzo, invece, si chiama Malcom, come Malcom X, che, spiega il ballerino, “è la coscienza che ho dentro la testa, la figura di cui più mi interesso”. Pagina dopo pagina, Primo e Malcom si ritrovano immersi nello spazio, simbolo di un luogo dove le diversità sono talmente tante da finire per essere irrilevanti. “Nello spazio”, sottolinea Sonny, “sono altre le caratteristiche che determinano chi sei, conta quello che sai fare”.
L’esperienza della diversità, Sonny la vive sulla propria pelle, da sempre. È nato a Roma ma non ha (ancora) la cittadinanza italiana, perché i suoi genitori sono nigeriani. Ha un evidente cadenza romana ma la pelle nera e i capelli crespi. ‘Contraddizioni’ che non sono facili da portare addosso, soprattutto quando si è piccoli. “Sarebbe stupido se dicessi che non ci ho sofferto, soprattutto da ragazzino; perché i bambini non hanno schemi, sono istintivi, dicono quello che credono di pensare e sono il riflesso dei genitori, che gli insegnano paure e stereotipi”. Quel disagio, vissuto anni fa in prima persona, lo incontra ancora oggi negli occhi dei suoi allievi, che magari, come lui, appartengono alle cosiddette seconde generazioni. Segno che la strada da fare è ancora molta. “La civiltà è uno sforzo, è una scelta che deve fare l’individuo, non è scontata ma necessaria”. Un discorso valido, secondo Sonny, anche per il mondo dell’arte, soprattutto in Italia. “Il mondo artistico istituzionalizzato è allineato al pensiero comune, quindi non è creativo, non è multiculturale, non è fluido”.
Eppure, nell’arte, quella vera, Sonny continua a crederci con forza. “La creatività è uno stimolo che nasce dal non accettare le regole che gli esseri umani hanno imposto al mondo, significa sognare una società diversa perché quella che c’è non è abbastanza; l’arte è rivoluzionaria, mai reazionaria”. Ed è così che, nel suo percorso, vissuto personale e tensione artistica hanno trovato sbocco nell’impegno civile e sociale. “Io vengo da Ostia Nuova, da piazza Gasparri, un quartiere un po’ particolare ed è lì che ho capito che l’arte può avere un suo utilizzo”. L’espressione artistica come strumento per incidere sulla realtà, quindi, per costruire alternative. “Ad esempio, i ragazzetti che fanno break dance, usano la strada per fare qualcosa di diverso e il risultato è che dove ci sono i breaker non c’è lo spaccio, perché ci gira un botto di gente”.
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[Il racconto di Sonny fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Io e Sonny ci siamo conosciuti durante gli anni del liceo, al collettivo studentesco, e insieme abbiamo organizzato serate e corsi di hip hop a scuola. Poi, nel tempo, ci siamo sempre confrontati su temi politici e ci siamo rincontrati sulla battaglia delle seconde generazioni.]