Ivano e la scuola popolare di scacchi a Villa Giordani
Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città.
Anni ’60. Campagna emiliana. Dopo una giornata di lavoro nei campi, i contadini si ritrovano nel bar della cooperativa, quello che hanno costruito tutti insieme, quello che rappresenta il cuore sociale del paese. C’è chi gioca a bocce, chi a carte, chi a scacchi. I bambini osservano gli adulti, impegnati in queste curiose attività, intervallate da chiacchiere e sfottò in dialetto. È in questa scenografia, verace e popolare, che Ivano Pedrinzani ha avuto il primo incontro con una scacchiera. “Ho imparato a giocare da piccolo, avevo 6 anni, e non ho più smesso”. Per qualche tempo ha frequentato anche il giro dell’agonismo, poi si è dovuto fermare. La passione, però, è rimasta ed è riemersa sotto altre forme, quelle dell’insegnamento e della Scuola Popolare di Scacchi di Villa Gordiani, fondata nel 2009 insieme ad altri due amici. Cinquecento euro a testa e una scommessa: portare gli scacchi in periferia, togliendo a questo antico e nobile sport la fuorviante patina di elitarismo che lo accompagna.
L’immagine stereotipata dello scacchista, infatti, è quella di un uomo solitario, dal volto scavato e dallo sguardo intenso, concentrato solo sui pezzi che ha davanti e sconnesso dal resto del mondo, possibilmente ricco, così da avere tempo a disposizione per studiare posizioni e mosse vincenti. “In realtà non è così”, spiega Ivano, “gli scacchi hanno una forte dimensione sociale; ad esempio, uno dei momenti fondamentali nella crescita di uno scacchista è quello in cui si rivedono le partite in gruppo, perché ognuno porta il suo contributo all’analisi e si migliora insieme”. Sociale e anche popolare. Perché per comprare una scacchiera bastano 20 euro e per sostituire l’orologio che scandisce l’avanzare delle sfide va bene anche un’app gratuita da scaricare sullo smartphone. Secondo Ivano e i suoi soci, però, la “popolarità” degli scacchi non si riduce all’aspetto economico, ma coinvolge la dimensione culturale e quella educativa. “È per questo che teniamo corsi nelle scuole, organizziamo attività in carcere e nei reparti pediatrici degli ospedali, promuoviamo manifestazioni di piazza e abbiamo anche contribuito all’allestimento di uno spettacolo teatrale”. Un approccio che mette in secondo piano agonismo e risultati, che comunque non mancano. La Scuola, infatti, può contare su circa 150 soci, di cui un centinaio iscritto alla Federazione Scacchistica Italiana, schiera una squadra in serie B e un in serie C ed è organizzatrice di “Roma Città Aperta”, festival internazionale che ogni anno attira nella capitale oltre 200 campioni da tutto il mondo (l’ultima edizione è del 2019, causa Covid, ma tornerà nel 2022). Il tutto contando solo sulle proprie capacità di autofinanziamento.
Come dichiarato fin dal nome, però, l’attività principale della Scuola Popolare di Scacchi è e rimane l’insegnamento. Molti corsi in sede, che durante il lockdown si sono trasferiti online, ma anche tanta presenza nelle scuole. “Nel 2017”, racconta Ivano, “abbiamo siglato un protocollo con il V municipio e siamo i loro fornitori ufficiali di lezioni di scacchi nei diversi istituti”. Dall’infanzia fino al liceo, ovviamente con un approccio che cambia al variare delleetà. Un impegno in linea con una dichiarazione del 2012 del Parlamento Europeo, che ha chiesto agli stati membri di inserire questo sport nella normale attività didattica. “Gli scacchi sono importantissimi nella formazione dei bambini, soprattutto oggi che abbiamo a che fare con una generazione abituata ai ritmi veloci dei videogiochi, che fatica a mantenere la concentrazione”. Ivano ne è convinto, confortato dalla lettura di molti studi sul tema ma anche dall’esperienza personale sul campo. “I più piccoli, all’inizio, fanno una mossa e si distraggono, magari guardano per aria e sono impazienti, poi, con il tempo, si abituano e dopo due o tre anni li vedi che riescono a stare concentrati sulla scacchiera, per capire che mossa devono fare”.
Il racconto di Ivano fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho scoperto la Scuola Popolare di Scacchi per caso, insieme alla mia compagna, mentre eravamo alla ricerca di un corso per imparare a giocare. L’incontro con Ivano e con la sua struttura è stato molto significativo, perché mi ha aperto alla conoscenza di un mondo che ha importanti risvolti sociali e educativi.
AL PASSO CON MONTESPACCATO
Montespaccato racconta una storia che è comune a quella di molte altre zone periferiche di Roma.
Stesse difficoltà, stessi problemi ma anche stesso impegno di pezzi importanti della comunità, nel tentativo di migliorare la situazione. Eppure, non ha la medesima notorietà di altri quartieri difficili e quindi non raccoglie un’uguale attenzione. Elena, con cui ci siamo incontrati subito dopo la fine del secondo lockdown, mi ha fatto vedere alcuni luoghi simbolo e raccontato Montespaccato dal punto di vista di una ragazza che ci è nata, ci vive e ci ha svolto, per molti anni, attività come scout. L’assenza di spazi per i giovani, la morsa della criminalità organizzata, la mancanza di molti servizi, le carenze del trasporto pubblico che rendono il resto di Roma troppo lontano (eppure il quartiere si trova dentro il perimetro del GRA, più vicino al centro di tante altre zone). Un’oasi di solitudine, praticamente. Un luogo in gran parte dimenticato.
Di esperienze positive, però, ce ne sono diverse, segno di una comunità attiva e vitale. La più interessante è quella dell’ASP Asilo Savoia, che si occupa di servizi alla persona, offrendo supporto a giovani, famiglie e anziani. Una realtà sorta all’interno del Centro Don Pino Puglisi, struttura sportiva sequestrata al clan Gambacurta.
Incontrare queste esperienze, parlare con gli abitanti, conoscere difetti e potenzialità di ogni territorio.
Non c’è altro modo per iniziare a colmare la distanza tra politica e persone, o almeno per provare a farlo, visto che si sta drammaticamente allargando. Una distanza che non è solamente geografica ma è soprattutto di fiducia, e che quindi richiede un concreto impegno di ascolto.
Di seguito trovate il video:
La riqualificazione zoppa della Stazione Tiburtina
Stamattina si è svolta la commissione trasparenza, richiesta da me dopo aver tentato invano di ottenere risposte per ben sei mesi.
Presso la Stazione di Tiburtina i lavori di riqualificazione sono in corso, ma il progettista ha dimenticato di prevedere i servizi igienici. 300 autisti e verificatori che stazionano nel piazzale, ma chiaramente anche gli utenti stessi, rischiano quindi di ritroverarsi un capolinea inadeguato alle loro esigenze.
Ma non è l’unico difetto di questo intervento, per il quale mi sono ritrovato a chiedere più volte correttivi urgenti.
Il problema di fondo è che si tratta di un progetto portato avanti senza prendere in considerazione le istanze dei cittadini, che avevano già elaborato una loro proposta di riqualificazione, dal marcato carattere “green”, e presentato una delibera di iniziativa popolare, accompagnata da circa 8mila firme, poi bocciata in Consiglio comunale. Chiedevano spazi pedonali e verdi e aree ciclabili, si sono ritrovati con quella che definiscono “una distesa di bitume” e “uno scempio”. Un muro di cemento che ha comportato l’abbattimento di tutti gli alberi presenti.
Non è così che si rigenera Roma, con un approccio approssimativo rispetto alle trasformazioni urbanistiche, senza sensibilità e senza partecipazione. I cittadini devono essere coinvolti e ascoltati perché i processi migliori partono sempre dal basso. Perché è chi vive un territorio che ne conosce le esigenze e può fornire un punto di vista unico e reale.
All’amministrazione, poi, spetta armonizzare queste richieste con una complessiva idea di sviluppo della città.
Paola e le case di sabbia
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A Ostia, le palazzine popolari di via Fasan e dintorni sono conosciute come le “case di sabbia”, perché “leggenda” vuole che siano state costruite mescolando alla calce la rena del vicinissimo mare. Forse è per questo che cadono a pezzi, si sgretolano proprio come i castelli con cui giocano i bambini sulla spiaggia. Cornicioni pericolanti, canne fumarie spaccate, tubi del gas corrosi, topi che invadono gli appartamenti del piano terra, muffa che si mangia i mobili, ascensori che si rompono e non vengono riattivati per settimane, a volte per mesi. L’elenco dei problemi è lungo e Paola Schintu lo conosce tutto. “La situazione di queste case è drammatica”, spiega, “soprattutto da quando c’è la Giunta Raggi; prima la manutenzione la facevano, qualche operaio lo vedevi, adesso niente, stiamo in mezzo al degrado e alla mondezza”. Lei in queste palazzine ci abita con il marito Mauro, il figlio Giordano e Scheggia, un cane sornione dal muso simpatico. “E spesso anche mamma sta con me, perché a casa sua resterebbe tutto il giorno da sola ma ha l’Alzheimer e non è possibile lasciarla”.
Paola si è trasferita a via Fasan nel 1987. “Prima stavo a Stella Polare, i secondi Parioli di Roma, chi lo avrebbe mai detto che mi sarei ridotta così”. Della sua storia personale, infatti, fa parte anche il ricordo di un doloroso sfratto. “Ero ragazzina quando venimmo buttati in mezzo alla strada; per fortuna a mamma gli diedero una casa del Comune a Tor Tre Teste”. Un incubo che oggi si rifà vivo. Perché formalmente, gli inquilini delle case popolari della zona sono tutti abusivi. Colpa di un contenzioso tra il Comune e la Moreno Estate, proprietaria degli immobili, scoppiato durante l’amministrazione Marino. Nel 2013, l’ex sindaco accusò la società immobiliare di non aver pagato Imu e Ici e il Comune sciolse il contratto. Gli appartamenti, però, non furono liberati e la vicenda arrivò al Tar, che condannò l’amministrazione capitolina al risarcimento del danno e a procedere con il rilascio delle case. “La Raggi sapeva di questa bomba, perché all’epoca era consigliera comunale, ma non ha fatto nulla”. Due anni fa, La Giunta ha annunciato di voler procedere all’acquisto delle palazzine, per stabilizzare gli inquilini. Ad oggi, però, questo non è ancora avvenuto e la spada di Damocle dello sfratto continua a ciondolare sopra le teste di migliaia di persone.
Una paura che ha attivato meccanismi di organizzazione e di lotta, in cui Paola si è immersa completamente. “Ci ha contattato l’Unione Inquilini e abbiamo iniziato a muoverci; mi sono ritrovata catapultata in questo ambiente e piano piano sono diventata un punto di riferimento anche per gli altri”. Senza volerlo, quindi, si è ritrovata ad essere un po’ la portavoce della protesta, capace di battagliare a muso duro anche con chi vuole cavalcare l’indignazione di persone in difficoltà per meri interessi elettorali. “Come quelli di Casapound”, specifica, “che nel 2014 stavano sempre qui e poi non li ha più visti nessuno”. È così che l’impegno politico si è incastrato nella vita di Paola, che di per sé era già abbastanza faticosa. Infatti, per lei, che lavora come addetta alle pulizie nel centro di Roma, la sveglia suona alle 3,45 di mattina (qualcuno direbbe di notte). “Perché alle 4,45 mio marito mi accompagna alla stazione di Lido Centro e da lì prendo la linea notturna che mi porta fino alla fermata Eur – Palasport della Metro B”. Se tutto va bene, alle 5,50 è a piazza Venezia e riesce a timbrare in orario, alle 6 in punto. “E per colpa di questa giunta stavo pure per perdere il lavoro”, sottolinea, “perché hanno aumentato le fermate del notturno e non arrivavo più in tempo per la coincidenza con la metro. Ma vabbè, questa è un’altra storia…”
[Il racconto di Paola fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto Paola nel corso di una riunione sull’emergenza abitativa. Fui colpito dalla sua schiettezza e la sua serietà nella rivendicazione di un diritto fondamentale come quello ad una casa sicura e per sempre.]
Read MoreLo sgombero del palazzo di Casapound
La richiesta di sgombero di Casapound fu il mio primo atto come Consigliere capitolino.
Ieri, la Sindaca Raggi ha annunciato lo sgombero di Casapound dal palazzo di Via Napoleone III. Bene. Molto bene. Non posso che essere contento, vigilare che alle parole seguano presto i fatti e che questo sgombero non venga usato per dare avvio a una nuova stagione di sgomberi indiscriminati (perché no, le occupazioni non sono tutte uguali).
La richiesta di sgombero di Casapound fu il mio primo atto protocollato nel 2018 da consigliere comunale, discusso nel gennaio del 2019 in assemblea capitolina. Una mozione che impegnava la Sindaca a procedere, di cui ero primo firmatario e che fu approvata all’unanimità dopo una complicata trattativa col M5S che, inizialmente, non voleva votare l’atto. Un gesto che serviva a ribadire un principio in cui credo profondamente: l’antifascismo è un valore fondante di questa città.
Quell’iniziativa mi è costata molto sul piano personale. Alcuni dirigenti di Casapound minacciarono querele, che poi ovviamente non arrivarono, perché sarebbero state infondate. Ma non solo. Subii insulti, cori ai sit-in di protesta del tenore di “Zannola lurido verme”, minacce. Il tutto mentre l’amministrazione capitolina faceva scorrere il tempo senza intervenire, probabilmente per non “disturbare” l’allora Ministro dell’Interno Salvini e l’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega a livello nazionale. Anche Tria (Ministro dell’Economia) e Bussetti (Ministro dell’Istruzione), a cui scrissi, mi dissero che quello sgombero non era una priorità.
Nonostante gli attacchi e le difficoltà, però, ripresenterei quella mozione altre mille volte, perché continuo a credere che quel palazzo debba smettere di essere un luogo dove si propagandano odio e discriminazione e debba, invece, essere restituito ai cittadini, attraverso un processo partecipativo così come la mozione stessa chiedeva alla sindaca. Laddove oggi c’è un covo di fascisti, domani può e deve esserci uno spazio vitale al servizio di Roma e dei romani.
Read MoreLa Locanda dei Girasoli
“Raro è trovare una cosa speciale tra le vetrine di una strada centrale; per ogni cosa c’è un posto e quello della meraviglia è solo un po’ più nascosto”.
I versi di Niccolò Fabi, riferiti a un immaginario negozio di antiquariato, sono in realtà perfetti anche per la Locanda dei Girasoli. Da oltre vent’anni, infatti, questo riuscito esperimento di ristorazione inclusiva se ne sta accucciato tra le pieghe del Quadraro, custodito da palazzoni popolari, praticamente invisibile finché non ci cadi dentro. “La posizione non è il massimo”, ammette Ugo Minghini, direttore del ristorante e tutor, “ma ci difendiamo, abbiamo la nostra clientela”.
Un pubblico di avventori che si è consolidato nel tempo, a partire da quel lontano 1999, anno di apertura della Locanda, primo esempio in Italia di lavoro auto sostenibile. “All’inizio era un progetto a conduzione familiare”, racconta ancora Ugo, “un’idea di due genitori che volevano dare un futuro lavorativo al loro figlio con sindrome di Down”. Un’iniziativa visionaria per l’epoca, visto che “i ragazzi down venivano tenuti chiusi in casa ed era inimmaginabile che potessero lavorare”. Ed infatti, soprattutto all’inizio, vederli prendere le comande e servire ai tavoli ha creato un po’ di sorpresa e qualche disagio nella clientela. Il feeling, però, ci ha messo poco a scoccare. “Ai ragazzi piace stare a contatto con la gente; avere un rapporto diretto con le persone e scambiarci una parola li rende felici”. Motivo per cui la ristorazione è il settore prediletto per l’avvio di progetti di questo tipo. Ovviamente, nel tempo, gli inciampi e le difficoltà non sono mancati. Il locale è stato anche a un passo dal fallimento, salvato dall’intervento del Consorzio Sintesi, che lo ha rilevato. Lo spirito di fondo, però, non è cambiato. “Noi ci teniamo ad essere a tutti gli effetti un’attività commerciale”, sottolinea con forza Ugo, “sennò saremmo solo una vetrina; anche i ragazzi devono essere consapevoli che questo è un lavoro, che loro ricoprono dei ruoli professionali in questo luogo e devono farlo funzionare in un certo modo”.
Così, da una piccola questione di famiglia, la Locanda dei Girasoli è diventata una realtà che impiega circa 20 persone e che forma continuamente giovani per aiutarli ad inserirsi nel mondo del lavoro. Come Claudio, che ha 22 anni e sta facendo tirocinio da commis di sala, dopo aver studiato all’istituto alberghiero di Tor Carbone. Con un velo di riservatezza, racconta che qui ha incontrato anche l’amore: “la mia fidanzata si chiama Benedetta, è molto bella e l’ho conosciuta perché è venuta a mangiare la pizza alla Locanda”. Anche Simone ha conosciuto la sua ragazza, Anna, nel ristorante, perché entrambe fanno parte della “brigata” da più di 10 anni. Lei è una cameriera esperta ed espansiva. Lui è un vulcanico commis di sala. “Ma so anche cucinare e pure fare la pizza”, precisa orgoglioso. Giovani energici e scalpitanti. “I miei ragazzi”, come li chiama Viviana, che del locale è la colonna portante, visto che ne fa parte da 21 anni. Una donna dolce e pacata, che parla a bassa voce e ama far domande. E che sogna di aprirsi, un giorno, un bar gelateria tutto suo. “Ma per ora lavoro qui, poi vediamo, piano piano”.
Il racconto de La Locanda dei Girasoli fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto i ragazzi della Locanda durante la campagna elettorale del 2016, poi ho continuato a seguirli e, quando hanno rischiato di chiudere, li ho supportati nella ricerca di una nuova sede(una delle tante promesse che la Raggi ha fatto e mai mantenuto).
All’ingresso della Locanda dei Girasoli c’è una lavagna con una scritta colorata, con cui accogliamo tutti i nostri ospiti. Quel messaggio si chiude con la dichiarazione di ciò che ci sentiamo di essere: una famiglia. Per raccontare questo posto, non posso che partire da qui. dal fatto che lo sento come parte della mia famiglia. D’altronde, ci sono entrato circa 15 anni fa, quando mi trasferii a Roma per provare a lavorare nel cinema, come regista. Ho iniziato facendo il cameriere, poi il tutor per i ragazzi e oggi sono direttore del ristorante. Ma la dimensione familiare appartiene alla Locanda da molto prima del mio arrivo, direi dalle origini. Questo locale, infatti, è stato creato nel 1999 da due genitori che volevano fare qualcosa per dare un futuro al loro figlio con sindrome di Down. È stato il primo esempio in Italia di lavoro auto sostenibile e, per l’epoca, si è trattato di un’iniziativa visionaria, perché normalmente i ragazzi down venivano tenuti nascosti in casa ed era inimmaginabile che potessero lavorare. Non a caso, soprattutto all’inizio, vederli prendere le comande e servire ai tavoli ha creato un po’ di sorpresa e qualche disagio alla clientela. Poi, un po’ alla volta, le persone si sono abituate. Oggi, i progetti di questo tipo sono molti, soprattutto nel campo della ristorazione, perché è un settore che si presta molto. Ai ragazzi piace stare a contatto con la gente; avere un rapporto diretto con le persone e scambiarci una parola li rende felici.
Ovviamente, in questi anni, gli alti e bassi non sono mancati, come per qualsiasi ristorante. Anche la posizione non ci aiuta, siamo in una strada laterale, nascosti dai palazzoni del Quadraro. Il locale è stato anche a un passo dal fallimento e ci ha salvato l’intervento del Consorzio Sintesi, che lo ha rilevato. Inoltre, spesso ci siamo trovati a dover fare appello ai nostri amici, chiedendogli di sostenerci venendo a mangiare da noi una volta in più. Non riceviamo finanziamenti, tranne qualche bando per progetti di formazione. Questo significa che lo spirito di fondo che anima questo posto non è cambiato, ed è un bene. Noi ci teniamo ad essere a tutti gli effetti un’attività commerciale, sennò saremmo solo una vetrina. Anche i ragazzi devono essere consapevoli che questo è un lavoro vero, che loro ricoprono dei ruoli professionali in questo luogo e che devono farlo funzionare in un certo modo.
Oggi la brigata della Locanda dei Girasoli, come si dice nel gergo della ristorazione, è composta da circa 20 persone, me compreso. E abbiamo continuamente ragazzi nuovi che formiamo e che aiutiamo a inserirsi in altre strutture. Claudio, ad esempio, è l’ultimo acquisto. Ha 22 anni, ha studiato all’istituto alberghiero di Tor Carbone e sta facendo il tirocinio come commis di sala. A chi gli chiede come si trova, racconta che grazie alla Locanda ha incontrato la sua fidanzata; si chiama Benedetta e l’ha conosciuta perché lei è venuta qui a mangiare la pizza. Ma abbiamo anche una coppia tutta interna: Simone e Anna, che stanno qui da oltre 10 anni. Lei è una cameriera molto esperta, lui è direttore di sala ma gli piace anche cucinare e fare la pizza. La vera colonna della Locanda, però, è Viviana. Ha iniziato a lavorare qui prima di me, 21 anni fa. Dice che si trova bene qui, ma il suo sogno è aprire un bar gelateria tutto suo. E poi ci sono Emanuele, che è aiuto cuoco, e altri quattro camerieri, cioè Federico, Edoardo, Ettore e Francesco. Insomma, siamo una bella squadra.