Qualche appunto sul referendum
Sono figlio di un lavoratore e di una casalinga. Con un solo stipendio, i miei genitori hanno cresciuto me e mio fratello affrontando sacrifici che, oggi da adulto, comprendo molto meglio. Hanno comprato una casa a Ostia e poi, vendendola, ne hanno costruita un’altra a Isola Sacra, pensando al nostro futuro. Niente eccessi, ma amore, umanità, valori e buon cibo non sono mai mancati.
Una vita fatta anche di rinunce, ma vissuta con la certezza di poter contare su uno stipendio stabile, su un tetto – grande o piccolo che fosse – e su quella capacità tutta italiana di fare in casa meglio che al negozio. Crescere in quel contesto ci ha fatto sentire fortunati, non vulnerabili.
La mia generazione, invece, è cresciuta in un contesto diverso. Siamo entrati nel mondo del lavoro nell’epoca della “flessibilità”, imparando presto a convivere con la precarietà. Siamo quelli dei Co.Co.Co, dei contratti a progetto, dei tirocini non retribuiti. Io stesso ho iniziato così. Siamo il frutto di un pensiero dominante che per trent’anni ha attraversato tutto l’arco politico, compreso il nostro. L’idea che per competere fosse necessario ridurre tutele, aumentare la flessibilità e marcare la distanza tra datori e lavoratori. Ma oggi possiamo davvero dire che quegli obiettivi siano stati raggiunti?
Per questo il referendum sul lavoro ha avuto per me un significato personale e profondo. Ringrazio la CGIL per averlo promosso. Il lavoro non è solo reddito: è dignità, cittadinanza, possibilità, speranza. È futuro. E se non siamo noi a porci queste domande, chi lo farà?
Siamo noi. Quelli che hanno vissuto la fatica di essere “sognati”. E che non vogliono restare prigionieri dei destini individuali. I 15 milioni che hanno partecipato lo dimostrano: siamo tanti, tantissimi.
E se davvero, come dice Renzi, il “centro” è necessario per vincere, allora quel centro deve ripensare il modello. Altrimenti, il cambiamento resterà uno slogan. (La Spagna non è lontana)
Non mi interessa parlare di vincitori e vinti. Senza quorum, la sconfitta è evidente. Ma votare è e resta un atto di libertà. Lo era a 18 anni, lo è ogni volta che pretendiamo un futuro migliore.
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