Pio e la vita dentro e fuori un campo rom
La carta d’identità di Pio si tiene insieme per miracolo, a causa di un avventato passaggio in lavatrice. Fragile, sbiadita, con i bordi smozzicati; mentre lui la sfila dal portafoglio, sembra sul punto di disintegrarsi. Una precarietà quasi iconica, che racconta la vita del suo proprietario più di quanto non facciano le informazioni stampate sopra, spesso fuorvianti. Ad esempio, il nome e il cognome non dicono tutta la verità. Sulla carta, infatti, c’è scritto Nedzav Husovic. “Ma tutti mi hanno sempre chiamato Pio, tranne un mio caro amico e le ragazze con cui sono stato”. Il nuovo nome glielo ha affibbiato suo fratello maggiore, quando erano bambini. “Vivevamo in un campo rom a Quarto Miglio”, racconta, “e io correvo sempre dietro alle galline di nonna, gridando ‘pio pio’”. Poche righe più sotto, un altro inciampo. Alla voce ‘cittadinanza’ c’è scritto ‘bosniaca’. “È falso, io sono nato e cresciuto a Roma ma non ho cittadinanza, sono apolide come mia madre, solo papà è bosniaco, perché è nato in Bosnia ed è arrivato in Italia a sei mesi”. Il terzo intoppo è sul retro della carta, dove campeggia la scritta ‘non valida per l’espatrio’. Senza cittadinanza, infatti, non si possono attraversare le frontiere. “Io non sono mai uscito dal mio paese, non ho passaporto e il viaggio più lungo che ho fatto è stato in Sicilia, con l’aereo”. Per non parlare dei problemi che l’apolidia può creare nei rapporti con la pubblica amministrazione, oppure a scuola e sul lavoro. “Io mi sono fermato alla terza media anche per colpa della mancanza dei documenti; il primo permesso di soggiorno l’ho avuto a 20 anni”. Un permesso di soggiorno come ‘caso speciale’, dicitura che un po’ fa ridere e molto fa riflettere. “Mi sono ritrovato in fila all’ufficio immigrazione accanto a disperati fuggiti dalla guerra”.
Formalmente, quindi, Pio non ha radici, è impalpabile come un fantasma. Nella sostanza, invece, è un ragazzo solido e socievole, che rivendica con orgoglio la sua appartenenza, “Io so de Roma, anzi so de Centocelle”, sottolinea, calcando volutamente il naturale accento romano. Fino al 2010, infatti, viveva all’interno del Casilino 900, allora l’insediamento rom più grande d’Europa. Una mattina, senza alcun preavviso, lui e la sua famiglia sono stati svegliati dalle ruspe venute a sgomberare il campo, per volontà della giunta Alemanno. “Fu una tragedia! Io abitavo lì da 15 anni, avevo amici nel quartiere, avevo una comitiva, non c’erano distinzioni tra rom e non rom”. Tutto spazzato via da un trasferimento repentino e forzato. Nell’alternativa tra il campo di via di Salone e Camping River, i genitori di Pio scelsero la prima soluzione, che almeno gli permetteva di ricongiungersi con alcuni parenti. Una consolazione davvero troppo magra. “Da un giorno all’altro mi sono ritrovato a vivere in un posto isolato, recintato, fuori dal raccordo, dove non c’era possibilità di interazione; sono cose che creano i mostri, sia nella testa che fuori; ti ritrovi a chiederti: e adesso che faccio?”.
La risposta è arrivata anni dopo: esco, cambio vita. Nel 2017, Pio ha salutato la sua famiglia e il campo di Salone per trasferirsi nel quartiere Don Bosco. “Ho preso in affitto una stanza in un seminterrato”, racconta, “era brutta ma ci si poteva stare”. A consentirgli di fare il grande passo è stato l’aver raggiunto una minima sicurezza economica, grazie al lavoro con l’Associazione 21 luglio. Un rapporto iniziato a seguito dell’interessamento di Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione, che lo contattò per proporgli un corso come attivista rom. “Accettai perché in quel periodo avevo tanta roba nella pancia da tirare fuori: volevo dire a tutti che noi siamo persone prima di essere rom e che la cultura e il nomadismo sono solo scuse per segregarci”. Dopo il corso è arrivato uno stage retribuito sui diritti umani e poi l’incarico come mediatore culturale nei progetti educativi. Infine, l’approdo presso il Polo ex Fienile di #TorBellaMonaca, dove Pio ha ritrovato dinamiche di ghettizzazione che conosce bene, tanto da definire il quartiere “un campo rom in verticale”. E forse è proprio questa identificazione la molla che lo spinge con più forza verso gli altri. Ora che è ‘fuori”, comprende ancora meglio cosa significa essere ‘dentro’, e non ha nessuna intenzione di tornarci. Ed è consapevole che quell’uscita non è un percorso che riescono a fare tutti, “devi avere la determinazione ma anche gli strumenti”. A via di Salone ci capita di rado ed ogni volta viene accolto da sentimenti contrastanti: c’è chi è curioso di sapere come va la sua nuova vita e chi lo sfotte dicendogli che oramai è diventato un ‘gaggio’ (da gagè, cioè non-romanì, ndr). Sono atteggiamenti che non lo infastidiscono né lo feriscono. Ciò che gli fa davvero male, invece, è constatare lucidamente i danni creati da decenni di strategia dei campi nomadi. “Se chiedo a mio nipote cos’è la cultura rom, lui risponde che è il campo, lo stare tutti insieme, perché siamo stati schiacciati, completamente assorbiti e privati di qualsiasi caratteristica personale; è questo che succede nei campi rom, quando cominci a pensare che non vali niente, che sei solo un numero; è un lavaggio del cervello che fa lo Stato con la scusa che a noi piace vivere così”.
[Il racconto di Pio fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto Pio al Polo Ex-Fienile, durante il lockdown, in occasione del confezionamento dei pacchi bebè distribuiti dalla 21 luglio. Insieme a lui, sono stato al campo di via di Salone e ci siamo continuati a vedere e a sentire perché, oltre a essere un ragazzo molto simpatico, è un interlocutore interessante e stimolante]
Lascia un commento