Anna, Roberto e i diritti delle persone con disabilità
Ha un quaderno con la copertina rosa e rigida, Anna Agostinucci, e dentro ci scrive tutto quello che fa e che le succede durante la giornata. A che ora si è svegliata, se ha fatto il bagno, se ha avuto una visita medica, se è andata in gita. Nel fine settimana, ci scrive anche quale film ha visto al Cinema Teatro Don Bosco (rigorosamente allo spettacolo delle 16, perché quello delle 18 la costringerebbe a cenare in ritardo). È un quaderno prezioso, quindi, un rituale in cui appuntare altri rituali. Lo custodisce sulla scrivania della sua camera, quella in cui dorme da anni, circondata dalle foto di quando era ragazza e da quelle dei nipoti. “Annarella non si è voluta muovere da qui neanche dopo la morte di mamma”, racconta Roberto, uno dei suoi due fratelli maggiori, “anche se avrebbe potuto dormire su un letto matrimoniale”. Ciò di cui lei ha più bisogno, infatti, è la regolarità, la ripetitività delle abitudini, e ogni piccolo cambiamento nella sua vita quotidiana la innervosisce. Così come la infastidiscono i dottori e il sentir parlare di malattie.La morte della madre, avvenuta otto anni fa, è stata per Anna un punto di svolta, purtroppo in negativo. È rimasta a vivere da sola e le poche amicizie di famiglia che frequentava, già assottigliatesi nel tempo, sono definitivamente sparite. Oggi, a farle compagnia e ad assisterla, nella sua casa di #Cinecittà, c’è Francesca, una collaboratrice domestica. E poi c’è Roberto, unico familiare che le vive vicino, la sente tutti i giorni e la viene a trovare almeno una volta a settimana. “Abbiamo anche un altro fratello più grande”, spiega lui, “ma abita in Sardegna, è troppo lontano”. Un’altra brutta tegola, per Anna, è stato il Covid. Da quando è iniziata la pandemia, infatti, non è più andata a lavorare. È operaia in un asilo nido comunale e ora è ufficialmente in smart-working. Un’altra occasione di socialità che si è chiusa, un altro rito che si è interrotto. “A lavoro faccio le pulizie, poso i panni, tutto quello che mi dicono di fare”, racconta, “mi vogliono tutti bene, ogni tanto quando serve porto qualcosa, ho portato la sveglia per la cucina, lo sgommarello per fare da mangiare”.Da quando si prende cura della sorella, nata con un grave ritardo mentale, Roberto ha sperimentato sulla propria pelle gli sforzi e le frustrazioni a cui va incontro chi ha un familiare disabile quando deve confrontarsi con la pubblica amministrazione. “La burocrazia ti si mangia”, sospira con stanchezza. Un esempio su tutti è l’assurdo iter che ha dovuto affrontare per ottenere sette ore di assistenza domiciliare. “La domanda l’abbiamo presentata dieci anni fa”, spiega, “quando Annarella aveva meno di 60 anni, quindi abbiamo seguito la procedura prevista per le persone con disabilità”. Peccato che, nelle more della lavorazione della pratica (cioè anni), la sorella abbia varcato la fatidica soglia dei sessanta, trasformandosi, per la burocrazia, da disabile in anziana. A quel punto la procedura si è ulteriormente arenata e ci sono volute tanta pazienza e altrettanta tenacia per portarla fino al traguardo, raggiunto a dicembre del 2020. Poco diversa è la storia dei progetti del “Durante e dopo di noi”. “A Roma ancora devono approvare i progetti presentati nel 2020 e da realizzare nel 2021, e tra poco si apriranno le domande per l’annualità 2022”. Un paradosso, frutto anche di un’intricata sovrapposizione di competenze. I soldi del “#Dopodinoi”, infatti, sono stanziati dallo Stato, che li affida alle Regione che, a loro volta, li erogano ai Comuni, ma solo a fronte della presentazione dei progetti. Nel caso di Roma, però, si aggiunge un ulteriore passaggio: l’amministrazione comunale stabilisce le linee guida ma i progetti li fanno i municipi. Il risultato? La maggior parte delle proposte non vede mai la luce. E a farne le spese sono le persone come Anna e come Roberto.—[Il racconto di Anna e Roberto fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho incontrato Roberto quando mi ha sottoposto la storia della sorella, che aspettava ancora una soluzione. Da quel momento, è diventato un interlocutore fondamentale per tutti il lavoro fatto sul Dopo di noi.]
Pio e la vita dentro e fuori un campo rom
La carta d’identità di Pio si tiene insieme per miracolo, a causa di un avventato passaggio in lavatrice. Fragile, sbiadita, con i bordi smozzicati; mentre lui la sfila dal portafoglio, sembra sul punto di disintegrarsi. Una precarietà quasi iconica, che racconta la vita del suo proprietario più di quanto non facciano le informazioni stampate sopra, spesso fuorvianti. Ad esempio, il nome e il cognome non dicono tutta la verità. Sulla carta, infatti, c’è scritto Nedzav Husovic. “Ma tutti mi hanno sempre chiamato Pio, tranne un mio caro amico e le ragazze con cui sono stato”. Il nuovo nome glielo ha affibbiato suo fratello maggiore, quando erano bambini. “Vivevamo in un campo rom a Quarto Miglio”, racconta, “e io correvo sempre dietro alle galline di nonna, gridando ‘pio pio’”. Poche righe più sotto, un altro inciampo. Alla voce ‘cittadinanza’ c’è scritto ‘bosniaca’. “È falso, io sono nato e cresciuto a Roma ma non ho cittadinanza, sono apolide come mia madre, solo papà è bosniaco, perché è nato in Bosnia ed è arrivato in Italia a sei mesi”. Il terzo intoppo è sul retro della carta, dove campeggia la scritta ‘non valida per l’espatrio’. Senza cittadinanza, infatti, non si possono attraversare le frontiere. “Io non sono mai uscito dal mio paese, non ho passaporto e il viaggio più lungo che ho fatto è stato in Sicilia, con l’aereo”. Per non parlare dei problemi che l’apolidia può creare nei rapporti con la pubblica amministrazione, oppure a scuola e sul lavoro. “Io mi sono fermato alla terza media anche per colpa della mancanza dei documenti; il primo permesso di soggiorno l’ho avuto a 20 anni”. Un permesso di soggiorno come ‘caso speciale’, dicitura che un po’ fa ridere e molto fa riflettere. “Mi sono ritrovato in fila all’ufficio immigrazione accanto a disperati fuggiti dalla guerra”.
Formalmente, quindi, Pio non ha radici, è impalpabile come un fantasma. Nella sostanza, invece, è un ragazzo solido e socievole, che rivendica con orgoglio la sua appartenenza, “Io so de Roma, anzi so de Centocelle”, sottolinea, calcando volutamente il naturale accento romano. Fino al 2010, infatti, viveva all’interno del Casilino 900, allora l’insediamento rom più grande d’Europa. Una mattina, senza alcun preavviso, lui e la sua famiglia sono stati svegliati dalle ruspe venute a sgomberare il campo, per volontà della giunta Alemanno. “Fu una tragedia! Io abitavo lì da 15 anni, avevo amici nel quartiere, avevo una comitiva, non c’erano distinzioni tra rom e non rom”. Tutto spazzato via da un trasferimento repentino e forzato. Nell’alternativa tra il campo di via di Salone e Camping River, i genitori di Pio scelsero la prima soluzione, che almeno gli permetteva di ricongiungersi con alcuni parenti. Una consolazione davvero troppo magra. “Da un giorno all’altro mi sono ritrovato a vivere in un posto isolato, recintato, fuori dal raccordo, dove non c’era possibilità di interazione; sono cose che creano i mostri, sia nella testa che fuori; ti ritrovi a chiederti: e adesso che faccio?”.
La risposta è arrivata anni dopo: esco, cambio vita. Nel 2017, Pio ha salutato la sua famiglia e il campo di Salone per trasferirsi nel quartiere Don Bosco. “Ho preso in affitto una stanza in un seminterrato”, racconta, “era brutta ma ci si poteva stare”. A consentirgli di fare il grande passo è stato l’aver raggiunto una minima sicurezza economica, grazie al lavoro con l’Associazione 21 luglio. Un rapporto iniziato a seguito dell’interessamento di Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione, che lo contattò per proporgli un corso come attivista rom. “Accettai perché in quel periodo avevo tanta roba nella pancia da tirare fuori: volevo dire a tutti che noi siamo persone prima di essere rom e che la cultura e il nomadismo sono solo scuse per segregarci”. Dopo il corso è arrivato uno stage retribuito sui diritti umani e poi l’incarico come mediatore culturale nei progetti educativi. Infine, l’approdo presso il Polo ex Fienile di #TorBellaMonaca, dove Pio ha ritrovato dinamiche di ghettizzazione che conosce bene, tanto da definire il quartiere “un campo rom in verticale”. E forse è proprio questa identificazione la molla che lo spinge con più forza verso gli altri. Ora che è ‘fuori”, comprende ancora meglio cosa significa essere ‘dentro’, e non ha nessuna intenzione di tornarci. Ed è consapevole che quell’uscita non è un percorso che riescono a fare tutti, “devi avere la determinazione ma anche gli strumenti”. A via di Salone ci capita di rado ed ogni volta viene accolto da sentimenti contrastanti: c’è chi è curioso di sapere come va la sua nuova vita e chi lo sfotte dicendogli che oramai è diventato un ‘gaggio’ (da gagè, cioè non-romanì, ndr). Sono atteggiamenti che non lo infastidiscono né lo feriscono. Ciò che gli fa davvero male, invece, è constatare lucidamente i danni creati da decenni di strategia dei campi nomadi. “Se chiedo a mio nipote cos’è la cultura rom, lui risponde che è il campo, lo stare tutti insieme, perché siamo stati schiacciati, completamente assorbiti e privati di qualsiasi caratteristica personale; è questo che succede nei campi rom, quando cominci a pensare che non vali niente, che sei solo un numero; è un lavaggio del cervello che fa lo Stato con la scusa che a noi piace vivere così”.
[Il racconto di Pio fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto Pio al Polo Ex-Fienile, durante il lockdown, in occasione del confezionamento dei pacchi bebè distribuiti dalla 21 luglio. Insieme a lui, sono stato al campo di via di Salone e ci siamo continuati a vedere e a sentire perché, oltre a essere un ragazzo molto simpatico, è un interlocutore interessante e stimolante]
Sonny, il ragazzo leone e i diritti delle seconde generazioni
Se deve scegliere un’etichetta da appiccicarsi addosso, Sonny Olumati preferisce quella di creativo. “Artista no, non ho quella pretesa”. La sua forma di espressione prediletta è la danza, che pratica e insegna ormai da molti anni, prima nella sua Ostia, dove è cresciuto, poi in contesti sempre più importanti, come l’Accademia di Danza di Roma o il Centro Sperimentale di Cinematografia. Da qualche anno, però, ha scelto di cimentarsi anche nella scrittura, dando alle stampe il suo primo libro, intitolato “Il ragazzo leone”. Dentro ci ha messo molto di sé, del proprio vissuto e della propria visione del mondo. Primo, il protagonista della storia, è un bambino italiano dalla pelle nera, proprio come lui. Il suo fedele pupazzo, invece, si chiama Malcom, come Malcom X, che, spiega il ballerino, “è la coscienza che ho dentro la testa, la figura di cui più mi interesso”. Pagina dopo pagina, Primo e Malcom si ritrovano immersi nello spazio, simbolo di un luogo dove le diversità sono talmente tante da finire per essere irrilevanti. “Nello spazio”, sottolinea Sonny, “sono altre le caratteristiche che determinano chi sei, conta quello che sai fare”.
L’esperienza della diversità, Sonny la vive sulla propria pelle, da sempre. È nato a Roma ma non ha (ancora) la cittadinanza italiana, perché i suoi genitori sono nigeriani. Ha un evidente cadenza romana ma la pelle nera e i capelli crespi. ‘Contraddizioni’ che non sono facili da portare addosso, soprattutto quando si è piccoli. “Sarebbe stupido se dicessi che non ci ho sofferto, soprattutto da ragazzino; perché i bambini non hanno schemi, sono istintivi, dicono quello che credono di pensare e sono il riflesso dei genitori, che gli insegnano paure e stereotipi”. Quel disagio, vissuto anni fa in prima persona, lo incontra ancora oggi negli occhi dei suoi allievi, che magari, come lui, appartengono alle cosiddette seconde generazioni. Segno che la strada da fare è ancora molta. “La civiltà è uno sforzo, è una scelta che deve fare l’individuo, non è scontata ma necessaria”. Un discorso valido, secondo Sonny, anche per il mondo dell’arte, soprattutto in Italia. “Il mondo artistico istituzionalizzato è allineato al pensiero comune, quindi non è creativo, non è multiculturale, non è fluido”.
Eppure, nell’arte, quella vera, Sonny continua a crederci con forza. “La creatività è uno stimolo che nasce dal non accettare le regole che gli esseri umani hanno imposto al mondo, significa sognare una società diversa perché quella che c’è non è abbastanza; l’arte è rivoluzionaria, mai reazionaria”. Ed è così che, nel suo percorso, vissuto personale e tensione artistica hanno trovato sbocco nell’impegno civile e sociale. “Io vengo da Ostia Nuova, da piazza Gasparri, un quartiere un po’ particolare ed è lì che ho capito che l’arte può avere un suo utilizzo”. L’espressione artistica come strumento per incidere sulla realtà, quindi, per costruire alternative. “Ad esempio, i ragazzetti che fanno break dance, usano la strada per fare qualcosa di diverso e il risultato è che dove ci sono i breaker non c’è lo spaccio, perché ci gira un botto di gente”.
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[Il racconto di Sonny fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Io e Sonny ci siamo conosciuti durante gli anni del liceo, al collettivo studentesco, e insieme abbiamo organizzato serate e corsi di hip hop a scuola. Poi, nel tempo, ci siamo sempre confrontati su temi politici e ci siamo rincontrati sulla battaglia delle seconde generazioni.]
Calcio e antimafia a Montespaccato
“Quando sono andato via, gli spogliatoi erano piccoli, ora sembrano quelli della Serie A; si vede che il Presidente e la società ci tengono alla squadra, ci trattano come professionisti”. Se c’è qualcuno che può raccontare, con cognizione di causa e spontaneità, l’evoluzione del Montespaccato Calcio negli ultimi anni, questo è Fabio Rossi, che dentro l’impianto sportivo ci è davvero cresciuto. “Ho iniziato a giocare qui che avevo quattro anni e mezzo, il campo era ancora di terra”. Vent’anni, fisico da bomber, Fabio nel quartiere è conosciuto come “l’ariete del Monte”, capace di svettare sopra le difese avversarie grazie al suo metro e novanta di altezza. Nella squadra del suo quartiere ha fatto tutta la trafila, dalla scuola calcio alle giovanili. “Poi, a 16 anni, sono andato all’Ascoli, giocando in under 17 e in primavera, e l’anno successivo mi ha acquistato il Perugia”. Una doppia frattura al malleolo, però, gli ha mischiato le carte in tavola. “Dopo l’infortunio, sono sceso di nuovo in serie D, passando alla VIS Artena”. Ancora un anno lontano da casa, quindi, per poi rientrare al Montespaccato, sempre in serie D. Ad accoglierlo, però, ha trovato una realtà molto diversa da quella che aveva lasciato.
Cosa è successo mentre Fabio era lontano? Molte cose, alcune negative, altre molto positive. Tutto ha avuto inizio nel 2018, quanto l’intero impianto della Polisportiva Montespaccato è finito sotto sequestro giudiziario, nell’ambito dell’operazione Hampa, che ha scoperchiato gli affari sporchi del clan mafioso dei Gambacurta. A seguito di quella vicenda, per salvare le storiche attività sportive, vitali in un quartiere periferico come Montespaccato, il Tribunale di Roma e la Regione Lazio hanno siglato un accordo e affidato la struttura all’ASP Asilo Savoia (ex IPAB, oggi Azienda Pubblica di Servizi alla Persona). È così che a Montespaccato è arrivato il progetto “Talento e Tenacia”, ideato e attivato, proprio dall’Asilo Savoia, nel 2016, a Genazzano. Si tratta di un programma molto articolato, che utilizza il calcio e i valori sportivi per aiutare i ragazzi e le famiglie che vivono in contesti fragili e di disagio economico e sociale. Gli inizi, però, non sono stati facili, come racconta anche Bruno Sismondi, ragazzo italo-uruguaiano che, entrato nel programma come calciatore, oggi ricopre il ruolo di viceallenatore della prima squadra. “Il primo anno c’era un po’ di diffidenza e allora noi giocatori siamo andati a farci conoscere nei negozi, abbiamo fatto dei servizi sociali per il quartiere, abbiamo organizzato eventi; tutto per far capire che avevamo buone intenzioni e per riavvicinare le famiglie”. L’operazione, per fortuna, è andata a buon fine e oggi il Montespaccato può vantare una scuola calcio con circa 400 iscritti e una prima squadra che, dopo 40 anni, ha riconquistato la serie D. “L’anno in cui abbiamo vinto il campionato d’Eccellenza”, racconta ancora Bruno, “nell’ultima partita contro il Tivoli, lo stadio era pieno”.
I successi sportivi, però, non dicono tutto della rinascita del Montespaccato Savoia Calcio, che oggi accoglie tifosi e visitatori in un impianto completamente rinnovato e intitolato a Don Pino Puglisi, uno dei simboli dell’antimafia. Non dicono tutto perché non mostrano ciò che avviene oltre il campo, nella vita quotidiana dei ragazzi che fanno parte di “Talento e Tenacia”. Ci pensa Massimiliano Monnanni, presidente della società, a spiegare qualcosa di più e a rendere il quadro completo. “Chi entra nel programma, per prima cosa, se ha smesso di studiare deve riprendere ad andare a scuola”. E per far sì che questo accada davvero, è lo stesso Asilo Savoia ad attivarsi. “Se hanno difficoltà, li sosteniamo nel percorso scolastico; se sono bravi e vogliono andare all’università, paghiamo noi parte delle rette; altrimenti, sulla base delle loro doti, gli facciamo fare dei corsi professionalizzanti”. È così, ad esempio, che Bruno è diventato viceallenatore o che Gianluca ha iniziato a lavorare al desk della palestra popolare che l’Asilo Savoia gestisce a Ostia. “E tutto questo”, precisa Monnanni, “prescinde dalla dimensione calcistica, perché ogni ragazzo, se vuole, rimane nel programma e continua a essere seguito anche se non fa più parte della squadra per scelte tecniche”. Il focus, quindi, è sulle persone più che sui calciatori. “I ragazzi hanno anche a disposizione uno psicologo per incontri collettivi e individuali”, spiega ancora il presidente, “e vengono coinvolti, due volte al mese, in attività di volontariato comunitario”. Il tutto suggellato dalla firma di un codice etico e di patti di responsabilità, pietre fondative di questo profondo percorso.
[Il racconto del Montespaccato Calcio e dell’Asilo Savoia fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Occupandomi, da sempre, di politiche sociali e di sport, ho avuto modo di incontrare più volte l’Asilo Savoia e di toccare con mano la qualità e l’importanza dei loro progetti, a partire da T&T La Palestra di Ostia.]
Pino e le case popolari di Nuova Ostia
Pratica 20477, protocollata il 9 agosto del 2018. Su un foglietto sgualcito, Pino ha ordinatamente appuntato la manciata di cifre a cui si aggrappa per continuare una battaglia estenuante, che non ha nulla da invidiare ai celebri duelli contro i mulini a vento ingaggiati da Don Chisciotte. Il balcone del suo appartamento, ai piani alti di una palazzina di Nuova Ostia, è minacciato da una canna fumaria pericolante. Attraversato da una crepa profonda, il comignolo potrebbe franare da un momento all’altro. Eppure, durante i tre anni che sono passati dalla denuncia, non si è visto nessuno, neanche per un sopralluogo. “Zero completo”, sentenzia Pino sconfortato. Per la verità, in zona, il suo non è l’unico caso di abbandono. Basta fare un giro tra gli edifici popolari di via Fasan e dintorni, per rendersi conto che il nomignolo con cui sono conosciuti, “case di sabbia”, è tristemente calzante. Proprio come sabbia, infatti, sembrano sbriciolarsi alla luce del sole. Intonaco che si stacca, pezzi di balconi che piombano sulle macchine parcheggiate, ringhiere arrugginite, ascensori bloccati per mesi e mesi.
“E pensare che, quando ci hanno assegnato gli appartamenti, questo palazzo era tra i migliori”. Originario di Enna ma adottato da Roma quando era ancora un ragazzo, Pino vive a Ostia dal 1973. “Sono entrato in casa che non era neanche completata”, racconta, “i pavimenti me li sono arrotati da solo, un po’ ‘alla carlona’, però almeno ho sistemato tutto come mi piaceva”. Con il passare degli anni, però, la situazione è inesorabilmente peggiorata, facendo segnare “un declino costante, una discesa sempre più in basso”. Al di là degli interventi straordinari, come quello di cui avrebbe bisogno la citata canna fumaria, ciò che manca più di tutto è la manutenzione ordinaria. “Ce la facciamo da soli”, spiega Pino, “il portone l’ho aggiustato io mille volte e anche le pulizie le paghiamo direttamente noi condomini”. In questi casi, però, il tempo non è galantuomo e la fatica di doversi far carico di tutto si fa sentire, inasprendo gli animi ed erodendo la coesione. Ed è così che fare fronte comune diventa sempre più difficile, perché “c’è chi non vuole cacciare i soldi, chi se ne frega di tutto”. E la lotta si indebolisce.
Degrado è la parola che Pino utilizza più spesso quando parla del posto in cui vive, e si riferisce ad un’assenza. Degrado, per lui, è qualcosa che c’era e che oggi non c’è più, oppure che dovrebbe esserci ma non c’è mai stato. Degrado, ad esempio, è il nulla che si è impossessato del terreno su cui affacciano le finestre di casa sua. “Tutta quest’area è di proprietà del vicariato e prima era un campo sportivo in cui giocavano e facevo gli allenamenti; laggiù c’erano i campi da tennis e, ai tempi in cui sono venuto ad abitare qui, c’era anche una piscina”. Adesso, invece, ci sono solo polvere, erba secca e ruderi sbeccati.
[Il racconto di Pino fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Conosco bene e da vicino la situazione delle case popolari di Ostia Nuova e credo che il tema dell’abitare sia, per Roma, una sfida cruciale, a cui non è possibile e non è giusto sottrarsi. Per questo motivo, ieri sono andato tra quei palazzi insieme a Roberto Gualtieri, che ha preso un impegno solenne con i cittadini: procedere, in caso di elezione, all’acquisto rent to buy delle cosiddette “case di sabbia”.]
Angelo e gli invisibili di Roma
Roma è un vaso antico che gocciola umanità dalle sue crepe. Vite irregolari si addensano ai bordi delle strade, sotto i portici scuri, lungo le sponde del Tevere. Vanno e vengono, si incontrano e si scontrano, inciampano e si rialzano. Eppure, nonostante questo loro febbrile divincolarsi, increspano appena la superficie, emergono a stento dal caos di carne e cemento, restano fuori dai selfie e dalle cartoline. Un campionario infinito di storie invisibili, un inventario ruvido di percorsi incidentati. C’è Mami, che in Romania ha fatto l’ostetrica per 31 anni e in Italia la badante per altri 17, prima di ritrovarsi a dormire sullo scalino di un negozio con vista su San Pietro. C’è Walid, che aspetta il passaporto per raggiungere il fratello e il figlio in Olanda e intanto ha arrangiato una palestra in mezzo al traffico del Lungotevere. C’è Massimo, che impasta con le lacrime il racconto delle sue scelte sbagliate e confessa con il cuore in mano che non resiste più a vivere per strada. E poi ci sono mille altri nomi. E anche corpi che un nome non ce l’hanno, perché nessuno glielo chiede mai. Gocciolano e basta.
“Prima di arrivare a Roma, non conoscevo per niente la povertà; anzi, i poveri mi facevano anche un po’ paura”. Seduto nel suo appartamento, circondato dai libri, Angelo Romeo torna con la memoria agli inizi degli anni 2000, quando, giovane studente universitario, lasciò Porto Empedocle, dove era nato e cresciuto, e venne a studiare nella capitale. “Abitavo in una traversa di via Marsala, quindi vicino alla Stazione Termini, e spesso mi capitava di vedere persone che rovistavano nell’immondizia per mangiare”. L’impatto con quella realtà fu duro ma anche trasformante. “Un sera, alcuni miei coinquilini mi coinvolsero nel portare bevande calde ai senzatetto della zona e da lì è iniziato tutto: ho deciso di riservare uno spazio nella mia vita ai poveri”. Da quasi vent’anni, quindi, Angelo dedica a quelle persone un giorno della propria settimana. Le va a cercare nei posti in cui se ne stanno abbandonate, parla con loro, gli porta cibo e bevande. A questo sforzo costante, poi, si sono affiancate anche altre esperienze, sempre a contatto con chi è costretto ai margini, come il viaggio a Calcutta, sulle orme di Madre Teresa, o le ore di insegnamento nelle carceri. Un impegno che si intreccia con la sua fede cattolica e con i suoi studi di sociologia, che lo hanno portato a diventare professore universitario. “Ma da sociologo non ho mai scritto nulla sui poveri”, sottolinea, “perché tra me e loro c’è un grande coinvolgimento e rischierei di tirare fuori cose falsate”.
Anno dopo anno, intorno ad Angelo si è strutturato un piccolo gruppo di volontari e, nel 2019, è nata l’associazione Missione Solidarietà, che ogni settimana distribuisce circa 150 pasti caldi nella zona di via della Conciliazione. Si incontrano tutti i giovedì, sole o pioggia, freddo o caldo. Cucinano insieme, si ritagliano un momento di preghiera e riflessione e poi si incamminano. Per le donne e gli uomini che incontrano per strada sono ormai dei punti fermi. “Siamo venuti qui anche durante il lock down”, racconta Angelo, “eravamo noi, loro e i gabbiani; in quel periodo molti sono andati fuori di testa”. Il Covid, infatti, ha reso tutto più difficile e “tanti faticano a trovare un alloggio, perché i posti nelle assistenze sono diminuiti”. Sarebbe riduttivo e sbagliato, però, attribuire alla pandemia tutte le responsabilità. Lo scivolamento verso il basso dei più fragili e l’allargamento del divario economico sono processi che partono da lontano, quadi inevitabili nel modello di società in cui siamo immersi. “Rispetto a quando ho iniziato”, spiega ancora Angelo, “sono cambiate le povertà; oggi i nuovi poveri ti passano accanto e neanche te ne accorgi, sono i padri separati, i ragazzi che scappano da casa, le donne e gli uomini affetti da disagio psichico o da dipendenze terribili come quella dalle slot machine”. E l’offerta di assistenza fatica a tenere il passo con la crescita della domanda. Angelo, però, non perde tenacia e speranza e il suo sguardo su Roma è fiducioso, “questa è una città solidale, pur avendo molte difficoltà.
Il racconto di Angelo fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Missione Solidarietà fa parte del Forum del Volontariato per la Strada che, durante il primo lockdown, ho sostenuto nella battaglia per consentire agli operatori di tornare in strada a distribuire i pasti.
Luca e il Parco Archeologico di Centocelle
Il racconto di Luca fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto Luca e il PAC Libero seguendo la vertenza del Parco di Centocelle e mi sono reso conto di avere di fronte non solo delle persone molto battagliere ma anche e soprattutto estremamente competenti.
Guardandoli su una mappa, Flaminio e Tor Pignattara non sono poi così lontani. Seguendo la strada più breve, i due quartieri sono separati da una manciata di chilometri, poco più di 10, che per le dimensioni di Roma rappresentano davvero un’inezia. Eppure, nella realtà, sono due mondi completamente diversi e la linea immaginaria che li collega rappresenta una delle rotte tipiche lungo cui si sono mosse le vite di molti romani negli ultimi 40 anni. Un esodo a raggiera, dalle zone centrali verso quelle periferiche e poi ancora più in là, oltre il Raccordo.
Luca Scarnati è parte di questo esodo. Infatti, nato e cresciuto nelle palazzine dei ferrovieri al Flaminio, a due passi dal Tevere, quando ha deciso di sposarsi e comprare casa ha dovuto fare i conti con la dura realtà del mercato immobiliare romano. “Un appartamento lì non potevo permettermelo, all’epoca le quotazioni arrivavano quasi a diecimila euro al metro quadro”. Così la scelta è ricaduta su Tor Pignattara, perché ben collegata e con prezzi decisamente più abbordabili. Ed oggi afferma con convinzione che non tornerebbe indietro perché di là si sentirebbe fuori contesto.
La Tor Pignattara che racconta Luca è “un mondo in fermento”, un quartiere vivace, ricco di associazioni e organizzazioni, in cui è possibile tessere relazioni e costruirsi una rete sociale di supporto. “Da quando nostro figlio va a scuola, io e mia moglie ci siamo creati intorno un nucleo di altri genitori che frequentiamo spesso e con cui ci diamo una mano a vicenda”. Un terreno fertile anche per coltivare l’impegno politico e l’attivismo civico, dimensioni che nella sua vita non sono mai mancate. “Io vengo dagli ’70 e ’80 e ho sempre fatto parte di un’ala un po’ contestatrice; sono cresciuto a pane e sezioni del PCI, le ho frequentate come se fossero luoghi normali, come se impegnarsi politicamente fosse una cosa scontata”. Così, alla prima occasione, il desiderio di partecipazione è riemerso e, nel 2014, Luca ha partecipato all’assemblea di quartiere che si è mobilitata contro il degrado. “È stata una bella esperienza, durata circa un anno, grazie alla quale sono entrato nel vivo del quartiere e ho conosciuto molte persone”.
La battaglia più testarda, però, è quella per il Parco Archeologico di Centocelle, che ha portato Luca ad essere tra i promotori del Comitato PAC Libero. Tutto ha inizio del 2017, quando dall’interno del Parco gli abitanti della zona vedono alzarsi degli strani fumi bianchi. L’area interessata è quella che era stata occupata, fino a qualche anno prima, dal campo nomadi Casilino 700, poi sgomberato. Ad esalare i fumi tossici, secondo i cittadini, sono proprio i resti di quell’insediamento, interrati dalla ditta che si occupò della demolizione delle baracche. Un sospetto solido anche se mai confermato ufficialmente. L’episodio genera preoccupazione ma ha anche il merito di riaccendere i riflettori su un’area che dovrebbe essere un fiore all’occhiello di Roma e che invece è finita da anni nel dimenticatoio.
Il Parco Archeologico di Centocelle, infatti, si estende su 126 ettari, di cui però solo 33 sono fruibili. Inoltre, al suo interno ospita i resti di ben tre ville romane, i cui reperti, catalogati dalla sovrintendenza, sono ospitati nelle cantine del vicino Istituto Superiore Immanuel Kant. “La cosa assurda”, denuncia Luca, “è che esiste già un progetto approvato di riqualificazione del Parco e sono stati stanziati anche i fondi, basterebbe solo fare i relativi bandi, ma nessuno gli sta dietro e quindi è tutto fermo”. E la situazione continua ad essere bloccata anche oggi. Le lotte del PAC Libero, infatti, hanno creato attenzione mediatica e istituzionale attorno al tema ma non sono ancora riuscite a far ripartire la macchina amministrativa. “Abbiamo ottenuto delle commissioni capitoline dedicate al parco e un consiglio comunale straordinario con la presenza della Raggi, siamo stati ricevuti al Ministero dell’Ambiente e siamo riusciti a far svolgere anche delle commissioni regionali sul tema”. Il Parco, però, resta ancora una chimera, nonostante l’uso della parte agibile sia letteralmente esploso durante il lockdown, a conferma del bisogno che c’è di un’area verde così ampia in zona molto popolosa. “Il problema è che questa amministrazione comunale è incapace di affrontare i problemi, sia dal punto di vista politico che amministrativo; e la giunta del V municipio è ancora peggio”.
Pasquale e le case popolari di Villaggio San Francesco
“Mi sono trovato i figli grandi e non me ne sono accorto”.
Seduto nella sua vecchia casa al Villaggio San Francesco (Acilia), circondato da pesanti mobili in legno scuro, Pasquale Di Roma si lascia andare a un velo di malinconia. “Quello che mi sono goduto più di tutti è il maschio, l’ultimo arrivato, che oggi ha 35 anni, perché l’ho seguito quando giocava a pallone; le due femmine, invece, le ho viste cresciute senza sapere come fosse successo”. Parla lentamente, cercando con cura le parole che gli consentono di srotolare il filo dei ricordi, sempre più indietro nel tempo. Pezzo dopo pezzo, ricostruisce le tappe principali di una vita fatta di lotta e di lavoro, in perfetta aderenza alla vecchia esortazione comunista. “Ho fatto tanti lavori diversi: il rappresentante, l’autista, l’escavatorista”. Nel 1970, poi, l’approdo in ATAC, dove è rimasto fino al momento fatidico della pensione, nel 2000. 30 anni di lavoro alla guida degli autobus ma anche 30 anni di battaglie per i diritti dei lavoratori. Per Pasquale, infatti, l’ingresso nell’azienda di trasporto pubblico ha rappresentato l’inizio dell’impegno sindacale. “Nel 1972 fui eletto delegato della FILT trasporti con 500 voti”.
Quell’elezione fu il naturale sbocco di un interesse già acceso per la politica, rimasto intatto ancora oggi. “Negli anni ’70 partecipai alle manifestazioni contro Ciccio Franco a Reggio Calabria e, anni dopo, a quelle contro Berlusconi a Milano”. Una voglia di partecipare che non si è spenta neanche con la pensione e, di volta in volta, si è incanalata in percorsi diversi. “Ho avuto per molti anni un negozio di tabacchi e giornali e ho fatto parte del sindacato edicolanti, poi mio figlio ha aperto un distributore di benzina e io sono entrato nella Confesercenti benzinai”. L’ultimo tassello di questa catena è il Comitato di Quartiere di Villaggio San Francesco, di cui Pasquale è Presidente dal 2017, eletto con il 60% dei voti. Un incarico arrivato quasi per caso e frutto di un carattere estremamente disponibile e di un’ampia rete di amicizie e conoscenze, tessuta in anni di vita nel quartiere. “Io vivo qui da più di 70 anni; la mia famiglia si trasferì ad Acilia nel 1945, quando io avevo due anni, e a San Francesco nel 1950”. All’epoca, le palazzine popolari che compongono il villaggio erano ancora in costruzione. Oggi, invece, sono al centro di un’annosa vertenza con il Comune di Roma, in cui il Comitato combatte in prima linea. Un braccio di ferro che ha radici proprio in quei lontani anni ’50. In origine, infatti, le palazzine furono edificate dal Comitato Romano Villaggio San Francesco, sulla base di una convenzione stipulata con l’amministrazione comunale, che mise a disposizione il terreno. L’obiettivo era quello di dare un tetto a decine di famiglie bisognose, uscite provate dalla Seconda guerra mondiale. I soldi necessari arrivarono in parte dal Vicariato e in parte da un gruppo di investitori, tra cui il Banco Santo Spirito e il Banco di Roma. Una volta completati i lavori, la proprietà degli immobili e la responsabilità della loro gestione passarono al Comune. Il risultato furono decenni di abbandono e disinteresse.
I problemi veri, però, sono iniziati una quindicina di anni fa, quando l’amministrazione capitolina si è svegliata dal torpore e ha messo mano alle carte del Villaggio, qualificando gli alloggi come ERP (Edilizia Residenziale Pubblica) e inserendoli nel proprio patrimonio. Il risultato? Alle famiglie assegnatarie è stato proposto di acquistare l’immobile a prezzo di mercato, magari accendendo un mutuo. L’alternativa sarebbe lo sfratto. “Ma qui c’è gente in difficoltà”, sottolinea con forza Pasquale, “famiglie che pagano 8 euro di affitto; chi glielo dà il mutuo?”. Quello che i cittadini e il Comitato di Quartiere contestano è proprio la qualifica delle case come ERP. “Non possono essere considerate tali perché sono frutto di una donazione”, spiega ancora Pasquale. Quello che sembra un cavillo, in realtà, è un passaggio essenziale, perché consentirebbe agli inquilini di ottenere le case a riscatto, quindi con uno sforzo economico molto minore. È su questa linea che si batte il Comitato di Quartiere, ad oggi purtroppo senza riuscire a sbloccare la situazione..
Il racconto di Pasquale fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto Pasquale durante la mia esperienza come consigliere municipale e grazie a lui ho scoperto una comunità molto bella, fatta di persone semplici, che tengono molto al loro quartiere.
Stefano e il Comitato di quartiere Centro Giano
“Il nostro unico interesse è che i luoghi pubblici rimangano tali, perché più chiudiamo gli spazi, più perdiamo gli spazi”
Stefano Cisale, Presidente del Comitato di Quartiere Centro Giano, sintetizza così la sua visione del rapporto tra cittadinanza, politica e beni comuni. E mentre parla si guarda intorno, come a voler sottolineare il luogo in cui si trova, concreto esempio di quell’idea. È una struttura ampia e ruvida, che sembra rivelare un’anima industriale, affiancata, all’esterno, da uno spoglio cortile in cemento. Un luogo che per anni è stato abbandonato e di cui la cittadinanza ha deciso di riappropriarsi, animandolo con eventi e attività, dai corsi di ginnastica dolce alle presentazioni di libri, dalle conferenze alle cene condivise. “È un posto per socializzare”, racconta Stefano, “i ragazzi lo vivono, vengono a giocarci a calcio, ci si scambiano i primi baci, le prime sigarette”. Un punto di riferimento, quindi, per una zona che, come molte altre a Roma, soffre di un’atavica mancanza di spazi di aggregazione.
Eppure, Centro Giano, ad ascoltare l’opinione di chi ci vive, potrebbe davvero essere un gioiello. “Questi quartieri hanno tutte le possibilità per diventare un vero volano, però ci vuole l’intelligenza dell’ascolto e la capacità di allacciare nodi”. La realtà, invece, va in tutt’altra direzione, e anche risultati che dovrebbero essere ovvi si ottengono solo alla fine di lunghe battaglie. Come il problema degli allagamenti, di cui il quartiere ha sofferto per decenni, complice una posizione poco fortunata che lo colloca tra due fossi e sotto il livello delle aree circostanti. Una piaga che è stata arrestata solo nel 2017, quando l’impegno del Comitato è riuscito a ottenere il definitivo adeguamento dell’impianto di sollevamento di Acea ATO 2. “C’è poi il tema della discarica abusiva che si trova sempre accanto all’impianto Acea”, racconta Stefano, “e che è arrivata a essere talmente ampia da invadere la strada e da impedire il passaggio alle macchine e alle persone con disabilità”. Anche in quel caso, l’insistenza dei cittadini ha premiato: oggi i rifiuti non ci sono più e l’area è controllata da telecamere. Per non parlare, infine, del Sentiero Pasolini, un corridoio ciclopedonale che potrebbe collegare Roma e Ostia Antica. “Sarebbe la ciclabile perfetta, se venisse mantenuta bene”.
Un passo alla volta, una conquista alla volta. Ma con la sensazione di essere abbandonati e con lo sconforto di vedere fondi pubblici sprecati per iniziative che stentano a partire. Anche su questo, Stefano ha le idee chiare. “Quei soldi dovresti metterli su finanziamenti mirati, parlando con associazioni, gruppi di interesse, piccole polisportive, ma anche insegnanti, parrocchie, asili; così riesci a creare delle situazioni positive e con pochi investimenti il quartiere si autogoverna”. D’altra parte, connettere le realtà locali per dargli forza è proprio la direttrice lungo cui si muove il Comitato di Quartiere Centro Giano. “Cerchiamo di attivare ponti, che per noi è una delle cose fondamentali dell’essere umano; questo vuol dire creare legami tra le persone, farle parlare, farle incontrare, anche fisicamente, per fare cultura e generare dibattito”.
Il racconto di Stefano fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho conosciuto Stefano e il Comitato di Quartiere Centro Giano 5 anni fa, poco prima delle elezioni amministrative. Mi hanno colpito la competenza, le pratiche innovative, il rapporto con il territorio e la capacità di far sentire ognuno membro di una comunità viva, coesa e responsabile.
Ivano e la scuola popolare di scacchi a Villa Giordani
Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città.
Anni ’60. Campagna emiliana. Dopo una giornata di lavoro nei campi, i contadini si ritrovano nel bar della cooperativa, quello che hanno costruito tutti insieme, quello che rappresenta il cuore sociale del paese. C’è chi gioca a bocce, chi a carte, chi a scacchi. I bambini osservano gli adulti, impegnati in queste curiose attività, intervallate da chiacchiere e sfottò in dialetto. È in questa scenografia, verace e popolare, che Ivano Pedrinzani ha avuto il primo incontro con una scacchiera. “Ho imparato a giocare da piccolo, avevo 6 anni, e non ho più smesso”. Per qualche tempo ha frequentato anche il giro dell’agonismo, poi si è dovuto fermare. La passione, però, è rimasta ed è riemersa sotto altre forme, quelle dell’insegnamento e della Scuola Popolare di Scacchi di Villa Gordiani, fondata nel 2009 insieme ad altri due amici. Cinquecento euro a testa e una scommessa: portare gli scacchi in periferia, togliendo a questo antico e nobile sport la fuorviante patina di elitarismo che lo accompagna.
L’immagine stereotipata dello scacchista, infatti, è quella di un uomo solitario, dal volto scavato e dallo sguardo intenso, concentrato solo sui pezzi che ha davanti e sconnesso dal resto del mondo, possibilmente ricco, così da avere tempo a disposizione per studiare posizioni e mosse vincenti. “In realtà non è così”, spiega Ivano, “gli scacchi hanno una forte dimensione sociale; ad esempio, uno dei momenti fondamentali nella crescita di uno scacchista è quello in cui si rivedono le partite in gruppo, perché ognuno porta il suo contributo all’analisi e si migliora insieme”. Sociale e anche popolare. Perché per comprare una scacchiera bastano 20 euro e per sostituire l’orologio che scandisce l’avanzare delle sfide va bene anche un’app gratuita da scaricare sullo smartphone. Secondo Ivano e i suoi soci, però, la “popolarità” degli scacchi non si riduce all’aspetto economico, ma coinvolge la dimensione culturale e quella educativa. “È per questo che teniamo corsi nelle scuole, organizziamo attività in carcere e nei reparti pediatrici degli ospedali, promuoviamo manifestazioni di piazza e abbiamo anche contribuito all’allestimento di uno spettacolo teatrale”. Un approccio che mette in secondo piano agonismo e risultati, che comunque non mancano. La Scuola, infatti, può contare su circa 150 soci, di cui un centinaio iscritto alla Federazione Scacchistica Italiana, schiera una squadra in serie B e un in serie C ed è organizzatrice di “Roma Città Aperta”, festival internazionale che ogni anno attira nella capitale oltre 200 campioni da tutto il mondo (l’ultima edizione è del 2019, causa Covid, ma tornerà nel 2022). Il tutto contando solo sulle proprie capacità di autofinanziamento.
Come dichiarato fin dal nome, però, l’attività principale della Scuola Popolare di Scacchi è e rimane l’insegnamento. Molti corsi in sede, che durante il lockdown si sono trasferiti online, ma anche tanta presenza nelle scuole. “Nel 2017”, racconta Ivano, “abbiamo siglato un protocollo con il V municipio e siamo i loro fornitori ufficiali di lezioni di scacchi nei diversi istituti”. Dall’infanzia fino al liceo, ovviamente con un approccio che cambia al variare delleetà. Un impegno in linea con una dichiarazione del 2012 del Parlamento Europeo, che ha chiesto agli stati membri di inserire questo sport nella normale attività didattica. “Gli scacchi sono importantissimi nella formazione dei bambini, soprattutto oggi che abbiamo a che fare con una generazione abituata ai ritmi veloci dei videogiochi, che fatica a mantenere la concentrazione”. Ivano ne è convinto, confortato dalla lettura di molti studi sul tema ma anche dall’esperienza personale sul campo. “I più piccoli, all’inizio, fanno una mossa e si distraggono, magari guardano per aria e sono impazienti, poi, con il tempo, si abituano e dopo due o tre anni li vedi che riescono a stare concentrati sulla scacchiera, per capire che mossa devono fare”.
Il racconto di Ivano fa parte del progetto “Al passo con Roma – Storie di persone che fanno la città”, con cui ho deciso di dare spazio a esperienze e realtà significative. Ho scoperto la Scuola Popolare di Scacchi per caso, insieme alla mia compagna, mentre eravamo alla ricerca di un corso per imparare a giocare. L’incontro con Ivano e con la sua struttura è stato molto significativo, perché mi ha aperto alla conoscenza di un mondo che ha importanti risvolti sociali e educativi.